Pecora nera si nasce e si diventa. Nicola è figlio di una matta, ha cominciato a frequentare il manicomio fin da piccolo per poi ritrovarvisi rinchiuso a sua volta, senza accorgersi del passaggio da inquilino a matto e senza motivo. Anzi un motivo c'è: è un figlio di troppo, in una famiglia disastrata, scaricato alle cure di una povera vecchia gallinara ("Mia nonna e' sempre stata vecchia"). Cresce trascinato dalla nonna ora a scuola, ora all'oratorio, ora al capezzale delle spoglie vegetali di una matta. "Non dai un bacio a tua madre?", lo rimprovera la nonna, "Prima che muore". Nicola tenta di proteggersi tenendosi a distanza dall'orrore di quel quasi-cadavere ("duro come il mattone"). "Domani fanno l'intervento", racconta la suora vecchia, dolcemente, "adesso non usano più il trapano, entrano direttamente dagli occhi". Immagini spaventose e nessun modo di proteggersi nemmeno da quelle.
Nicola è un bambino normale, nato nei fantastici anni '60, con normali desideri e fantasie di bambino, anzi più sveglio, attento, curioso, coraggioso, di tanti suoi amichetti di scuola. Ma ha la sfortuna di nascere pecora nera. La maestra, il prete, il padre, i fratelli, tutti i meschini personaggi che lo circondano, l'hanno già bollato: "è vero che sei matto?", gli chiedono gli amichetti, "l'ha detto la maestra". Lui nega, si difende finché può. "Non siamo matti siamo santi... famo i miracoli... resuscitiamo i morti". Si difende, come può, proiettando in un amico immaginario la sua pazzia: fa fare a lui il matto, fa dire a lui le stronzate da matto. Ma un giorno più doloroso di altri, succede che i due Nicola si fondono in uno solo, che si fa carico di diventare un matto come si deve, quello che tutti da trent'anni gli chiedono di essere.
Il film La pecora nera, di Ascanio Celestini, è complesso, ma allo stesso tempo semplice. Il linguaggio è travolgente e ricchissimo, come si aspetta chi ama da sempre le produzioni dell'immaginario scoppiettante, logorroico, torrentizio, spudorato, libero di Ascanio. Il tema è nerissimo, ma il narratore non abbandona mai, nemmeno per sbaglio, il registro lieve e surreale del racconto. Così il dramma della pazzia, quello della morte, della reclusione, del rifiuto, dell'ingiustizia, della stupidità umana restano tutti velati d'incanto, come in certi racconti della buona notte. O in certe canzoni della buona notte. Ma non per questo fanno meno male. Penetrano lentamente, le parole, le frasi, le ripetizioni; penetrano e restano appiccicati e lavorano nel profondo. Nella semplicità dell'idea e del modo di dirla o spararla a raffica o ripeterla o cantarla e metterla in scena c'è tutta la sua efficacia. "Io che ti ho fatto ti disfo, come ti ho fatto ti disfo". Nicola canticchia un motivetto appreso da piccolo.
E in me riecheggia il motivetto di una canzone, altrettanto dolce, che ci cantava mamma, per farci addormentare:
"-Chi è chi è che bussa alle porte del mio portone, chi è chi è che bussa alle porte del mio porton?
-Apri apri che sono tuo marito e ti vengo a salutar.
-Mio marito è già tre mesi ch'è partirto per la guerra, mio marito è già tre mesi e non spero che ritornera'.
-Apri apri che sono capitano, capitano della corte marina, apri apri che sono capitano e ti vengo a salutar.
-Se voi siete capitano io le porte vi vengo ad aprir.
Nell'aprire che fece della porta suo marito si presentò
-Io non perdono a donne che parlan mal di me!
La prese per i capelli e la trascinò per terrà, la prese per i capelli e la trascinò per terra.
-Io non perdono a donne che parlan mal di me!"
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