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sabato 18 febbraio 2012

The tree of life: un ponte sull'Aldilà


Soporifero come solo le preghiere sanno esserlo, soprattutto se lunghe 138 minuti, l'ispirata cosmogonia di Terrence Malick, The Tree of Life, Palma d’oro a Cannes come miglior film nel 2011, mostra come il regista si difende dalla violenza della morte, come replica alla perdita di senso di fronte alla morte di un congiunto, quale risposta ha trovato alla domanda ultima ed è curioso ma è la stessa risposta a cui è arrivato il dentista di mio fratello: Dio c'è. Basta guardarsi intorno per vederne le prove: è nella meraviglia del creato, nel miracolo della Vita e nell'immensità dell'Universo. Lo sa anche Luigi, l'uomo che lava le scale nel mio palazzo. Che aspetto ha? È come una fiamma, una fiamma perennemente ardente.  

La trovata non mi pare brilli per originalità e ammetto di essermi addormentata qua e là alla prima visione (col risultato di non aver nemmeno capito chi cavolo sia Sean Penn e quale fratello sia morto). Ma c'è da riconoscere che Malick ci sa fare ed è un bel viaggio quello che ci propone, un viaggio che, a partire dalla morte, ci porta su e giù nello spazio e nel tempo: ora si allarga sull'immensità dell'Universo, ora si restringe sull'origine della Vita e ritorna al microscopico evento della nascita e della morte prematura all'interno di una famiglia come tante. Così decido di rivederlo a mente fresca alle 11 di mattina.

Basta essere svegli, infatti, per capire che la storia è un semplice pretesto per lanciare un ponte sull'Aldilà, per tentare un affaccio sull'Incommensurabile, ma certo qualche problemino può crearlo il montaggio alquanto arzigogolato, con cui il regista spezza ogni tendenza alla linearità, alla consequenzialità, alla logica in quello che va mostrando. Il tragico evento della perdita del figlio/fratello alla tenera età di 19 anni non ci viene banalmente raccontato, ma direi quasi rivelato attraverso quello che, chi resta, fa e pensa. Udiamo il sussurro di preghiere e invocazioni a Dio.

................Chi siamo noi per te?...............
.........................Rispondimi!.....................

Di sussurro in sussurro, però, con la seconda visione riesco ad arrivare solo fino a metà del film, prima di essere assorbita da questioni un pelino meno auliche: cosa preparo per pranzo?

Eppure il film è seducente, trasuda religiosità e misticismo in ogni fotogramma, è un distillato di bellezza visiva e sonora, una danza di immagini grandiose su musiche che scaraventano ad altezze stratosferiche. Allora qual è il problema?


Il problema sono io. Perché da "scettica inquieta" come potrei definirmi prendendo in prestito un binomio di Riccardo Venturini, mi dico che sarebbe bello avere fede e consolatoria l'attesa di un Regno Eterno che ci veda diventare un tutt'uno col Creatore e raggiungere con lui la stessa perfetta incomprensibilità trascendente che dall'incompiutezza della nostra condizione ora ci appare irraggiungibile. Ma continuo a ostinarmi a non riuscire a credere in Dio.
Comunque a parte la questione della fede, il problema è anche che il film è enorme. È fitto di immagini, quadri, schegge, suggerimenti, spunti, allucinazioni, frammenti, riferimenti, simboli, metafore; pensate che il tortuoso montato finale della durata di 2 ore e mezzo deriva dalla sapiente potatura di un girato di 365 ore, ma che volete il materiale resta tanto. Come vi dicevo, il regista la prende alla lontana: apre un largo zoom sull'origine dell’Universo e sull'evoluzione della Vita sulla Terra, il tutto ricreato senza usare il computer, ma affidandosi ad effetti sperimentali a partire da “sostanze chimiche, vernici, colori fluorescenti, fumo, liquidi, CO2, piattaforme rotanti, dinamiche dei fluidi, luci e fotografia al rallentatore”, come svela il curatore degli effetti speciali, un certo Douglas Trumbull che ha firmato anche “2001: Odissea nello spazio” e “Blade Runner”. Dalle sorgenti termali e dalle profondità oceaniche si ritorna poi nella compagna americana con la rievocazione di una buona fetta dell’infanzia del protagonista, ricreata bisogna dirlo con bravura magistrale. E naturalmente ci viene aperta una finestra sul presente del protagonista, descritto come profonda solitudine ingabbiata tra i vetri della città, della superficialità e del benessere. E accanto a tutto questo c’è costantemente il sogno e c’è pure l’allucinazione. Insomma ci sono talmente tante cose da vedere in uno stesso film che mi sento di consigliare la visione a puntate.


Alla luce del popò di roba vista allora mi domando: e se invece al di là del ponte non ci fosse nulla? Avrei risolto il problema di come ambientarmi all'inferno, ma avrei un problema nuovo: innanzi tutto che significa "nulla"? E poi come rispondere al dolore e all'ingiustizia della morte senza cadere nel nichilismo? Qualcosa resta?

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