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venerdì 6 gennaio 2012

12. Roma - Putignano in bici. Basilicata dimenticata

Foto by S.C.

Nelle puntate precendenti abbiamo visto la nostra eroina della porta accanto prendere la bici e sfidare la sorte e la disapprovazione materna imbarcandosi in un’impresa “fatta a mano”, talmente piccola da non meritare altra eco che urla da bordo strada al passaggio sul leitmotiv “E fèrmate nu poco ccà! ”. Ma in mancanza di meglio anche un’avventura artigianale può avvicinarsi a un’epopea on the road.

Tutto era cominciato una mattina con la bella idea di vedere se di tutte le strade che portano a Roma ce ne fosse una, proveniente dal tacco d’Italia, ancora percorribile a pedali con cui andare da Roma a Putignano, dall’esilio capitolino all’abbraccio (contrariato, ma pur sempre abbraccio) materno. Per la serie “Come ridare alla bici la negletta dignità di mezzo di trasporto” o “Come sbarcare il lunario da disoccupata” o ancora “Come farsi una vacanza con quattro soldi” o “Come lanciarsi all’avventurosa conquista di una meta rassicurante” o “Come sfidare il senso comune del possibile” o più semplicemente “Come complicarsi la vita”.

Non che non fosse un’impresa alla sua portata, intendiamoci lo era eccome, ma dato che la nostra eroina non si muove mai senza tabelle di marcia e il massimo dell’imprevedibilità che è solita concedersi è non sapere se andrà di corpo alle 7:17 o alle 7:23, la prospettiva poco rassicurante di un viaggio privo di itinerario prestabilito e senza tappe precise aveva turbato non poco le sue notti prima della partenza. Quelle ansie inconsce tuttavia non videro mai la luce del giorno e non poterono ostacolare il varo dell’impresa.

Lo sappiamo perché abbiamo già visto la nostra incauta eroina salutare un bel giorno la scatola capitolina per aprirsi a orizzonti sconosciuti, con un equipaggiamento da vera dilettante infarcito di voglia di imparare sbagliando. L’abbiamo vista pagare le proprie manie principesche quasi con la vita sulle primissime assolate salite, per poi ripartire forte di una nuova consapevolezza e cioè che le principesse non viaggiano in bici e il motivo è che non potrebbero portare tutto l’occorrente in tre borse appese al portapacchi. L’abbiamo vista imbattersi in incarnazioni di generosità d’altri tempi, in scollinamenti che si fanno sudare, in scollinamenti che quando finalmente arrivano regalano panorami dalla bellezza sconvolgente e discese forti come orgasmi. L’abbiamo vista fare i conti con dolori improvvisi giunti apposta a rovinare l’illusione di onnipotenza faticosamente guadagnata in salita. Insomma l’abbiamo vista fino a questo momento sudare un casino col risultato netto di essere arrivata in Irpinia e lordo di essere scampata al peggio (nubifragi, incidenti, furti d’identità, rapimenti, raptus omicidi, commercio di organi, scioglimenti nell’acido etc.).

Riprendiamo dunque la nostra strada dove l’avevamo interrotta e cioè al suono della sveglia alle 5:30 del 21 luglio 2010.

Fonte: Google immagini

Quella mattina il risveglio aveva un sapore diverso dagli altri che l’avevano preceduto: la risposta della bici al mio buongiorno, anche se come al solito perfettamente udibile, non mi sembrò calda e virile quanto avrei voluto che fosse. Così evitai accuratamente di pensare alla solitudine che bussava alla porta, portai a termine il mio rituale del risveglio come se mi aspettasse la più felice delle tappe e guadagnai la strada prima che la nebbia sparisse e con quella anche la voglia di andarmene da Lioni all’alba con la nebbia.

Sì, perché le valli fluviali riservano sempre delle sorprese e nella Valle dell’Ofanto, sul percorso consigliatomi a furor di popolo in piazza a Lioni, la Statale Ofantina, quella mattina mi sorprese non la nebbiolina ma un nebbione padano, a dire il vero anche poetico se non fosse che con gli occhiali appannati la poesia può facilmente sfumare nel dramma: come fare ad andare avanti senza cadere o schiantarmi contro un ostacolo non visto, divenne la mia unica preoccupazione. Per mia fortuna dovevo solo seguire un’unica strada, per giunta bella larga e deserta, superare il lago di Conza lasciandomi a sinistra il suo specchio argentato tetramente ammantato di grigi vapori, pedalare oltre Cairano e Calitri ancora dritta, procedere a tentoni lungo la stessa strada maestra che per un buon tratto disegna il confine tra Campania e Basilicata e lasciarla con una svolta a destra solo al bivio per Monticchio, che magari nel frattempo sarebbe arrivato il sole a fare chiarezza su quello che stavo combinando.

Nebbia in Alta Irpinia nella valle dellOfanto. Fonte: www.altirpinia.com/2011/04/visitare-cairano-escursioni-in-alta.html

Ed andò proprio così: la nebbia sfumò rapida come un velo che viene tolto da un mago con “Olé!” e un sole splendente illuminò le mie prime pedalate all’interno di quella terra vergine su cui fino a quel momento avevo funambolicamente pedalato al margine. Ero in Basilicata finalmente, a due al massimo tre tappe dalla meta, con dentro un repertorio già sconfinato di immagini indelebili e sensazioni pazzesche e un ginocchio dolente con cui il patto era “tu mi fai arrivare a casa e io ti sforzo il meno possibile”. Il mio passaggio in Basilicata era ancora tutto da pianificare e del resto era troppo tardi per farlo, quindi lo avrei improvvisato più o meno come tutto il resto. Forse mi sarei fermata a dormire a Melfi o a Venosa o forse altrove, quel che sapevo era solo che sarei passata dai laghi di Monticchio, dove mi aspettavo di vivere un momento topico del viaggio, con la riapertura di un vecchio file risalente all’era geologica in cui in gita scolastica alle elementari la maestra Manzari ci portò proprio lì, a Monticchio, praticamente all’estero.

E invece niente, niente di quello che ebbi sotto gli occhi e sotto le gomme della bici si rivelò collegabile con niente di quello che avevo già visto e già vissuto in quel passato lontanissimo e mi venne il dubbio di esserci andata davvero a quella gita, tanto mi pesava accettare la perdita di un così decisivo file di memoria. Era possibile esserci stata e non ricordare assolutamente nulla? Come poteva la mente permettersi un simile spreco di esperienza? Tanto più che non poteva essere un caso isolato ed accettarlo significava accettare di aver perso anni e anni di esperienza per far posto a… che so… una formula chimica o il ritornello di una canzone di cui non ricordo il titolo. Mamma, solo tu puoi risolvere il dilemma: ma a quella gita mi avevi mandata o no?

Lago di Monticchio. Fonte: Google immagini

Quando arrivai sulle sponde di uno dei due laghi immersi nel bosco era troppo presto per mangiare e pisolare e troppo tardi per risolvere l’enigma del vuoto di memoria indagando nei particolari. Decisi quindi di farmi bastare una lunga inspirazione della bellezza che mi circondava e ricominciai ad arrampicarmi in salita per proseguire un percorso di cui ancora ignoravo quasi tutto tranne che andavo decisamente verso il quinto melone.

Il quinto melone non era una località, o meglio non una in particolare, era qualsiasi località in cui avrei potuto acquistare il melone numero cinque. Il conteggio era iniziato nel secondo giorno di viaggio, quando avevo preso l’abitudine tanto economica quanto dissetante di risolvere il pranzo con un melone intero di cui non buttavo via nemmeno i semi. Facevo in modo di procurarmelo sempre un po’ in anticipo, in modo da mettermi al riparo da imprevisti. Così il quinto melone mi riconobbe da uno dei banchi del mercato nella piazza di un’amena località non distante da Monticchio dal nome Rionero in Vulture. A pochi passi dalla piazza c’era la villa del paese, piena di ombra, panchine e orde di creaturine età 0-16 talmente prese dai loro giochi ed intrighi che non avrebbero potuto notarmi nemmeno se fossi stata nuda. Ugualmente decisi di fermarmi una decina di minuti, giusto il tempo di scrostarmi di dosso la patina di isolamento che mi trascinavo dalla partenza, di sedermi a mangiare una mela e qualche nocciola e soprattutto di rinfrescarmi le idee sotto una fontanella. Appena mi fu chiaro che non avevo la minima idea di come andare avanti, rimontai in sella col proposito di chiedere informazioni alla prima persona che mi avesse ispirato fiducia.

Non ne trovai di persone che mi ispirarono fiducia. Così ripiegai sulla prima persona che mi avesse ispirato qualcosa di positivo. E mi lasciai catturare dalla bellezza di uno scorcio caratteristico: un muro candido, un vecchio ulivo e sotto un omino buffo con un vistoso doppio mento e altrettanto vistose lacune nella dentatura. L’omino oltre che caratteristico si rivelò affidabile. Rafforzò il mio vago progetto di andare a Venosa e mi suggerì di arrivarci passando per Ripacandida. La strada, mi promise, era poco trafficata, da giovane l’aveva fatta tante di quelle volte in bicicletta e di sicuro l’asfalto era in ottime condizioni. Mi preparai al peggio, considerato che l’ultima volta che aveva preso una bici probabilmente ero una poppante. In più la mia carta mi preannunciava salite con pendenza 7-12%. Ma non mi tirai indietro considerando che avrei potuto fare pausa pranzo da qualche parte all’ombra a Ripacandida e poi ripartire con tutta calma per Venosa dopo un bel pisolino, superata l’ora di punta.

A dispetto dei miei timori, la strada si rivelò proprio come mi era stata descritta, con asfalto intatto e macchine nemmeno a pagarle. Quello che non potevo immaginare era il paesaggio in cui mi sarei ritrovata immersa. Mai visto niente di più bello in vita mia. La cascata che mi aveva sorpresa dentro Isola del Liri era bella; il lago del Fibreno, l’accogliente Atina, per non parlare di Benevento e poi il Sannio, l’Alta Irpinia: ne avevo viste di cose belle. Ma pedalare in Basilicata è tutta un’altra storia: è godere della bellezza di un territorio che è unico nel suo genere, che non assomiglia a nessun altro, perché non è cambiato quasi per niente, è rimasto com’era, non è stato dietro allo sviluppo che ha trasformato e deturpato il resto d’Italia, un territorio antico, felicemente dimenticato dal progresso, con centri urbani ancora ben circoscritti e spesso minacciosamente arroccati, collegati l’uno all’altro da strade naturalmente ondulate, che disegnano i contorni di campi e boschi con continui sali-scendi e mai una salita che sia tale fino in fondo o una discesa che dietro l’angolo non nasconda un nuovo muro su cui arrampicarsi. Pedalare in Basilicata dopo aver percorso il Lazio e la Campania è davvero spaesante perché è diversa.

Quando vidi Ripacandida mi venne un brivido gelido lungo la schiena e per pochi istanti fu pieno inverno pur col solleone e l’orologio che si avvicinava alle ore 13. Pedalavo sul dorso di una collinetta. Sollevando di parecchi gradi il mento potevo ammirare tutta l’altezza da cui quel paesello dal nome innocente dominava l’intero paesaggio circostante. Ah è così? Allora a noi due! Cercai di non allertare i sistemi di allarme e di tenere alto il morale, ma da qualche parte una piccola spia si accese: potevo sopravvivere alla pendenza, ma non alla brace sui rettilinei assolati. Sconvolta dalla canicola sbagliai strada ad un bivio. Imboccai stupidamente una ripida rampa in discesa, per fortuna percorrendola solo per poche decine di metri prima di accorgermi che andava a morire in un terreno incolto. Feci dietro front e dovetti spingere la bici a piedi per issare nuovamente il carico fino al punto in cui avevo sbagliato. Il bello fu che non bastò compiere il miracolo di arrivare in cima viva e di trovare un bar che vendesse succo di mirtillo perfino in Basilicata, che poi uno si fa tanti pregiudizi e invece… Il bello fu che ormai a un passo dal godermi il quinto melone, ciò che vidi guardando in cielo mi impose di cambiare programma. Un esercito di nuvoloni neri era in rapidissimo avvicinamento: dovevo per forza rinviare la pausa pranzo se volevo raggiungere Venosa prima che l’acqua raggiungesse me.

Da Ripacandida a Venosa fu una passeggiata. I nuvoloni mi tallonavano stretto, ma la strada era bellissima e la discesa rinfrancante e nella città Oraziana mi aspettava il premio per la tenacia. La tranquillità per essere arrivata prima della cateratta mi riaprì lo stomaco. Nell’aria aleggiava un’impalpabile pulviscolo luccicante come quello delle favole. Venosa si stagliava fiera della sua bellezza su quello sfondo plumbeo e la ricorderò sempre così: con un centro storico in pietra antico e curato con piccoli scorci di impagabile bellezza; con un castello con tanto di fossato, più suggestivo che mai ammantato di nubi come lo scoprivo; e con in giro Penelope Cruz. Pedalava sulla chiancata davanti al castello su una bici bianca da passeggio e appena la vidi istintivamente la fermai. Cercavo un posto per dormire. Assomigliava a Penelope Cruz solo che era un po’ meglio. “L’ho appena comprata” mi fa, riferita alla bici. “La sto rodando”. Fu amore a prima vista.




Data: 21/07/2010
Tappa 6a: Lioni (Av) - Venosa (Pz)
Km percorsi: 90,20
Budget: 38.60
Itinerario: SS 7 Ofantina, che poi continua nella SS 401 - Laghi di Monticchio - Rionero in Vulture - Ripacandida - Venosa.

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