
Questa volta partii dall'albergo-ristorante Bellavista di Atina troppo presto anche solo per sperare che ci sarebbe stato qualcuno a sventolare il fazzoletto. Dopo aver trascinato giù per le tre rampe di scale tutti i bagagli, mi accorsi però che, accanto alla bici, il proprietario dell'albergo aveva lasciato una pompa a piantana, che sembrava farmi ciao-ciao con la manina. Trattenni a stento una lacrimuccia. Sembrano piccolezze, ma per me valgono molto, come ogni gesto che sa essere opportuno e allo stesso tempo piccolo, minimo, poco più di niente. Quando, dopo aver assicurato i bagagli al portapacchi con gli elastici, fui pronta a partire, indugiai ancora qualche istante davanti al belvedere sulla Valle di Comino e affidai alla pompa un bigliettino di saluto e ringraziamento per i miei ospiti. Lasciai Atina mentre era ancora avvolta da una nebbiolina impalpabile e fresca, appena penetrata dai primi raggi di luce. Nel silenzio generale, perfino una timida fontanella riusciva a far sentire nitida la sua voce invitante. Ero di nuovo per strada.
Il resto del mondo doveva aver fatto le ore piccole all'Atina Jazz Festival, perché la strada era tutta mia. A rigor del vero, era anche delle onnipresenti infaticabili formiche, che, c'era da scommettere, avevano pure fatto le ore piccole (non oso pensare a cosa succederebbe se vivessimo al loro livello o loro al nostro: la loro vittoria sulla nostra pigra e psicotica specie sarebbe schiacciante). Incrociai anche un paio di ciclisti tiratissimi, che come si usa dire a casa mia, non sembravano essere "tutta lana", a giudicare dall'andatura con cui avanzavano in salita. Salutai come al solito, scampanellando, e continuai la mia rilassante discesona, circondata dallo scenario colore verde intenso dei ripidi costoni appenninici, che digradano verso valle. Il fattore decisivo che mi permise di arrivare a Cassino fu, come mi avevano anticipato, la forza di gravità: la Terra mi restituiva l'energia potenziale accumulata il giorno prima salendo. I miei quadricipiti furono chiamati ad attivarsi solo quando fui giunta alle porte di Cassino. Lì, nemmeno a farlo apposta, incrociai la prima macchina della giornata. La fermai per capire come fare per raggiungere la SS 6, la Casilina, che, come avevo deciso la sera prima davanti alla minestra di cannellini, mi avrebbe portato al primo sconfinamento di regione. L'automobilista mi fece cenno di seguirlo: andava giusto in quella direzione.
In un baleno mi ritrovai con la Casilina che crepitava sotto le gomme. Certo le statali sono forzatamente piatte e regolari, ruvide e dure da calpestare, prive di quella sinuosità e quell'ondulazione naturali che caratterizzano la viabilità minore, rendendola interessante anche da un punto di vista puramente tattile e propriocettivo. Le statali, in genere, non sono altro che brutali scorciatoie per chi va di fretta e a costoro andrebbero lasciate, per spirito di sopravvivenza e quieto vivere: meno c'è traffico e più sono i veicoli a velocità di decollo che, con lo spostamento d'aria, spingono le fanciulle in bici, se non nel burrone, nella volgarità e nel turpiloquio, e più c'è traffico e meno possibilità ci sono di rimanere illesi. Laddove siano inevitabili comunque, vanno ingoiate rapidamente come farmaci amari. Per la premura di abbandonare il tratto più pericoloso (in rosso sulla mappa fino al bivio con la SS 6 dir.) fu Campania prima che me ne rendessi conto.
In un baleno mi ritrovai con la Casilina che crepitava sotto le gomme. Certo le statali sono forzatamente piatte e regolari, ruvide e dure da calpestare, prive di quella sinuosità e quell'ondulazione naturali che caratterizzano la viabilità minore, rendendola interessante anche da un punto di vista puramente tattile e propriocettivo. Le statali, in genere, non sono altro che brutali scorciatoie per chi va di fretta e a costoro andrebbero lasciate, per spirito di sopravvivenza e quieto vivere: meno c'è traffico e più sono i veicoli a velocità di decollo che, con lo spostamento d'aria, spingono le fanciulle in bici, se non nel burrone, nella volgarità e nel turpiloquio, e più c'è traffico e meno possibilità ci sono di rimanere illesi. Laddove siano inevitabili comunque, vanno ingoiate rapidamente come farmaci amari. Per la premura di abbandonare il tratto più pericoloso (in rosso sulla mappa fino al bivio con la SS 6 dir.) fu Campania prima che me ne rendessi conto.
L'intensità del traffico era ancora bassissima quando, al bivio di Taverna San Felice per Presenzano, feci qualche minuto di sosta in un bar desolato. Il barista mi servì un succo di mirtillo da bere e uno da portare via, senza uscire dal dormiveglia: aveva gli occhi aperti per puro caso, come certi morti ammazzati. Mi spiegai la scarsa reattività come il nefasto risultato dei bagordi del sabato notte, ma è anche possibile che la loquacità non fosse il suo pezzo forte. Mentre risalivo in bici, passò una banda, anch’essa silenziosa, e potei solo immaginare il momento festoso in cui, a mattina inoltrata, dopo la funzione religiosa, sarebbe andata in giro per le strade e salita su un palco a spandere nell'aria allegre melodie un po' stonate, sotto gli sguardi scolpiti dei paesani col berretto in testa e le mani incrociate dietro la schiena o impegnate nel reggere il vassoio delle paste. Accarezzai quelle immagini: fantasie che si ibridavano con ricordi di scene già vissute, già godute, già sofferte. Prima che i sensi fossero saturi e l’umore ne risentisse, mi rimisi sui pedali lasciando che quella tenera, nostalgica elaborazione continuasse e magari sfumasse impercettibilmente in qualcos’altro.
Il qualcos’altro fu puro piacere alimentato dalle familiari suggestioni evocate dal ritrovarmi a percorrere le stradine di campagna che caratterizzano la valle del Volturno, territorio votato all'agricoltura. Avevo scelto quel percorso leggendo Emilio Rigatti (Italia Fuorirotta). Sapere di essere sulle invisibili tracce dei suoi copertoncini mi riempiva di gratitudine ed orgoglio, come se avessi ricevuto un’eredità preziosa, fossi stata scelta per un solenne passaggio di consegne. Ora tocca a me passare. Passare quel che ognuno è in grado di trovare qui. Un percorso da ricordare, da rifare, da arricchire, da aggirare, che importa! Passarlo a chi ha la pazienza di leggere.
Spaziando con lo sguardo di campo coltivato in campo coltivato, intervallati da sporadici eucalipti e canneti, pedalai per un tempo infinitamente dilatato e piacevole. Dopo aver oltrepassato un ponte sul Volturno che mi portò sul versante sinistro della valle, imboccai il rettilineo della SS 158, che in un'oretta (sosta mela compresa) mi portò in un posto tanto sconosciuto quanto decisivo per le successive sorti del viaggio: Alife.
Feci sosta davanti alla cattedrale, per rinfrescarmi il corpo e le idee sul percorso. Emilio Rigatti aveva finito la sua tappa a Piedimonte Matese, a pochi chilometri da dove mi trovavo, invece io avevo ancora voglia di pedalare e soprattutto sentivo che non era ancora arrivato il momento di fermarmi. Così mi feci convincere da un sedicente ciclista, spuntato fuori da un gruppetto che si intratteneva in chiacchiere davanti alla sezione del PD, ad arrivare a Telese, che mi fu descritta in maniera talmente invitante, che i miei pregiudizi caddero come intonaco vecchio. E poi c’erano le terme a Telese e già mi immaginavo a fine giornata a rigenerarmi a mollo in una pozza fumante o su un lettino per massaggi.
Attraversai il piccolo centro storico di Alife pedalando da porta a porta (è un breve lastricato, rettilineo come una galleria ferroviaria) senza sapere che sarebbe stato uno spartiacque. Imboccai facilmente la strada che mi ero fatta spiegare minuziosamente. Si rivelò meno interessante di quella lasciata dall’altra parte di Alife, ma tutto andò bene, almeno fino ad un certo punto. Poi, dalle alture del benessere sorvolate fino a quel punto, la situazione iniziò a precipitare.
Man mano che procedevo e mi avvicinavo al centinaio di chilometri percorsi, la stanchezza iniziò a fare capolino, dapprima sotto forma di un improvviso alone di rigidità al tendine d’Achille destro. Cercai di non farmi impressionare, ma nemmeno potevo far finta di non sentirlo. Quando diventò un fastidio persistente (non proprio un dolore, era come se il tendine facesse attrito nella guaina), cominciai a guardare con ansia alla meta, che invece sembrava non arrivare mai.
Come è facile immaginare, giunsi a Telese distrutta, dopo circa 110 km. Quando misi i piedi a terra mi accorsi che il fastidio al tendine mi costringeva a zoppicare. Mi consolai pensando che, dato che il problema era meno vistoso sui pedali, quanto meno non mi avrebbe impedito di pedalare. Era solo una speranza. Risalii in bici e mi misi a caccia di un posticino tranquillo dove mangiare. Il paese era deserto. Andai subito verso le terme, per scoprire che il tizio nel gabbiotto d’ingresso non aveva di meglio da fare che ostacolarmi. Mi fece tante di quelle storie alla mia semplice richiesta di entrare con la bici a passo, che, quando riuscii a convincerlo, mi era quasi passata la voglia di entrare. Feci una rapida perlustrazione, ma non c'era un prato per distendermi ed io potevo ambire a qualcosa di meglio che una tetra panchina per il mio pisolino. Me ne uscii, risentita per aver perso tempo con un posto che se la tirava tanto senza avere nemmeno un prato. Il cielo si era annuvolato. Mi sentivo sempre più la piccola fiammiferai. Vagavo delusa nella desolazione di un paese che non mi sembrava altro che piatto. All’improvviso un’indicazione stradale mi illuminò: lago di Telese. Senza pensarci due volte, con rinnovato ottimismo, mi lasciai alla spalle il centro e mi diressi alla volta di quella nuova promessa.
La scena della pompa a piantana messa lì, vicino alla tua bici,come ad indicare una buona continuazione,non può che essere la prefazione ideale per l'inizio di una tua nuova tappa.
RispondiEliminaAnche se,come ho letto,gli imprevisti non sono mancati,ma la costanza e la determinazione ti premieranno.
Non so se sia la prefazione ideale. È uno degli infiniti inizi possibili. In qualche modo, chissà come, le idee si organizzano e le storie a un certo punto cominciano.
RispondiEliminaOra che ci penso, potevo benissimo cominciare dall’inizio, cioè dal primo risveglio. Per esempio, tu come fai ad alzarti la mattina? Io faccio sempre un conto alla rovescia nella mente a partire da dieci. È poco originale, forse è sintomo di psicosi, ma è estremamente funzionale: allo zero immancabilmente sono in posizione eretta. Sarei curiosa di conoscere altri sistemi.
Hai ragione,forse il termine 'ideale' è sbagliato, ho semplicemente colto nella tua storia la scena e come hai descritto la situazione,senza nulla togliere al resto del racconto ovviamente,mi ha colpito il tuo attimo di emozione e come quel poco ti abbia dato tanto.
RispondiEliminaVuoi conoscere altri sistemi per svegliarsi? Non posso aiutarti,tuttavia il conto alla rovescia mi sembra un buon sistema,io invece mi sveglio e alzo spesso senza problemi come se avessi un orologio interno sarà l'abitudine?
Anche io mi sveglio senza problemi e, tranne poche eccezioni, sempre prima che suoni la sveglia. Appena mi metto a letto mi dico: “ok, domattina sveglia alle 6 e 40”. Alle 6.35 sono sveglia. Un minuto dopo in piedi.
RispondiEliminaLa mia curiosità era: in genere da dove viene l’input che ti mette in piedi? Ti parli come faccio io? Pregusti la prima colazione? Hai sete di immagini? È il pensiero del lavoro che scatta? E quando non devi lavorare che succede?
Appena sveglio penso al lavoro e le cose da fare poi mi alzo qualche esercizio fisico un caffè e affronto la giornata.
RispondiEliminaNei giorni liberi,la mattina,mi piace fare running quindi mi predispongo mentalmente programmo il percorso da fare e mi alzo.